Quando pensiamo all’apicoltura e al nomadismo inevitabilmente emerge l’idea di quel momento chiave nello sviluppo della civiltà che è stata l’invenzione o la scoperta dell’agricoltura.
Generalmente fissiamo questo passaggio a circa 10000 anni fa, quando le popolazioni nomadi impararono a domesticare piante ed animali permettendo la formazione di nuclei sociali e comunità agricole stanziali. Con la perdita del nomadismo inizia un significativo cambiamento dei modi di vita, della società e delle relazioni con la natura circostante che influirà su tutta la successiva evoluzione dell’umanità.
Con facilità riusciamo ad immaginare gli innumerevoli vantaggi delle nuove condizioni stanziali, legati alla maggiore sicurezza alimentare, alla crescita demografica ed allo sviluppo della società moderna. Meno immediato è invece immaginare la perdita che questa evoluzione ha comportato. Il nomadismo è strettamente dipendente dalle variazioni climatiche, dai fattori geografici, dai cicli stagionali e dagli ecosistemi locali.
La capacità di attuare il nomadismo passa quindi attraverso una intima e profonda interazione con la natura, che in parte si perde perché risulta meno strettamente condizionante con l’attuazione delle pratiche agricole. Interpretato dal punto di vista sociale, il nomadismo rappresenta quindi la fase arcaica e primordiale delle comunità che successivamente si organizzeranno in strutture sempre più articolate, complesse ed interconnesse.
C’è però un contesto in cui la pratica del nomadismo non è solo un retaggio storico ma continua a rappresentare una strategia di innovazione e implementazione, come per l’apicoltura. Il nomadismo in apicoltura è la pratica che consiste nel trasferire gli alveari in funzione delle fioriture garantendo la salute dell’alveare e una maggiore produttività.
Tralasciando la raccolta di miele da alveari selvatici, che può essere considerata una pratica occasionale ed assimilabile alla raccolta di frutti spontanei, l’apicoltura prevede necessariamente un passaggio chiave dell’agricoltore-allevatore che non usa le api in libertà ma organizza, gestisce e cura le colonie che alleva negli alveari.
Attraverso questa forma di domesticazione o addomesticazione, anche se non completa, l’apicoltura tende alla conservazione di un equilibrio ottimale tra lo sfruttamento del lavoro delle api per una produttività e la necessaria conservazione del benessere dell’alveare.
Il nomadismo in apicoltura non è collocabile in uno specifico momento storico ma come una pratica intrinsecamente nata con l’apicoltura, infatti, la pratica di cambiare la collocazione delle arnie assecondando i cambi stagionali e le fioriture è stata attuata da sempre per il positivo effetto sul benessere delle colonie stesse. Al tempo stesso, spostando le arnie sarà possibile massimizzare lo sfruttamento delle fioriture garantendo sempre un costante approvvigionamento di nettare e polline, con conseguente garanzia di salute delle colonie, un miglioramento della qualità del miele ed una implementazione delle produzioni anche attraverso la possibilità di produzioni uniflorali, dalle caratteristiche qualità organolettiche.
Per l’attuazione del nomadismo in apicoltura è quindi necessaria una elevata specializzazione degli operatori, che devono avere una approfondita conoscenza del territorio, delle specie presenti dei periodi di antesi, che non possono essere meramente ricondotti alle mensilità del calendario ma sono da interpretare in funzione della stagione e dell’andamento climatico. La capacità di lettura di questi segnali ambientali diventa inoltre critica per pianificare gli spostamenti delle arnie che non devono seguire ma assecondare o, meglio ancora, anticipare le fugaci fioriture, con vantaggi per la stessa sopravvivenza delle specie botaniche e degli habitat in cui si trovano.
L’accurata selezione dei siti di collocazione degli alveari per la peculiare presenza di essenze botaniche e l’assenza di fonti di inquinamento diventa essenziale per garantire la qualità del miele prodotto e la salute degli alveari, che nonostante lo stress degli spostamenti, con i cambi di collocazione risultano più protetti dalla diffusione di malattie e parassiti. La ricollocazione delle colonie in aree sempre ricche di fiori, infatti, garantisce alle api un’alimentazione equilibrata, diversificata e abbondante di polline e nettare, che favorisce la salute delle colonie.
La pratica del nomadismo in apicoltura ha radici molto antiche ma che nel tempo si sono sostanzialmente modificate ed evolute in un approccio che solo nel XIX secolo è diventato più sistematico e organizzato, legato essenzialmente all’introduzione delle moderne arnie mobili, che hanno reso più pratico il trasporto delle colonie.
Ai giorni nostri il nomadismo in apicoltura è una pratica comune in molte regioni del mondo, specialmente dove l’effetto delle variazioni stagionali porta a fioriture sequenziali e variabili e nonostante la lunghissima tradizione, continua ad essere una delle pratiche di innovatività per la filiera apistica.
Continua infatti a rappresentare una efficace strategia per massimizzare la produzione e la salute delle colonie, contribuendo alla diversificazione dei prodotti apistici, alla conservazione della biodiversità e degli habitat naturali, all’adattamento ai cambiamenti climatici e, in definitiva alla sostenibilità dell’apicoltura.
Anche l’adozione di tecnologie innovative contribuisce alla sostenibilità del nomadismo, reso più sicuro, gestibile e redditivo da software, applicazioni e previsioni che implementano ma non sostituiscono il preziosissimo bagaglio di conoscenze e competenze che sono nell’esperienza diretta dell’apicoltore custode e gestore del complesso ecosistema rappresentato dall’arnia.
Luigi Menghini, professore ordinario di Botanica farmaceutica e referente Orto botanico Giardino dei Semplici, Dipartimento di Farmacia, Università Gabriele d’Annunzio.
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